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Immagine del redattoreSerena Berneschi

Breve Storia del jazz

Aggiornamento: 10 dic 2022

Scrivendo il mio libro in uscita nel 2020 sulla cantante jazz Carmen McRae è sorto in me il desiderio di scrivere questi sinottici approfondimenti sulla storia del jazz, che ho inserito nel mio elaborato e che d'ora in poi utilizzerò con i miei studenti, se interessati allo studio del jazz. Nella speranza di essere più chiara ed esaustiva possibile mi sono basata sul percorso di studi fatto in questi anni, sui vari manuali studiati e sul materiale messomi a disposizione dai miei insegnanti durante il triennio di Canto Jazz che ho frequentato presso il conservatorio di Livorno (in primis le lezioni del M° Francesco Martinelli mi sono state molto utili). In caso ci fossero degli errori e delle imprecisioni sarei felice se qualche collega volesse dare il suo contributo con delle critiche costruttive.

Nel leggere questo scritto, si tenga presente che sulle vicende storiche del jazz eminenti e ben più autorevoli autori hanno speso fiumi d’inchiostro. Lungi perciò dal voler scrivere una definitiva opera omnia del jazz, nei seguenti sinottici approfondimenti auspico di aiutare il lettore (anche quello meno erudito) a orientarsi nelle trame delle vicende jazzistiche, tracciando delle linee guida nelle quali si collochino sia i principali protagonisti della vicenda musicale afroamericana sia i vari stili jazzistici. Il lettore più avvezzo non interpreti quindi certe coincise ricapitolazioni o necessarie omissioni come sottovalutazione o negligenza da parte mia, ma come spunto per l’approfondimento.


Un’ultima necessaria premessa: come Stefano Zenni scrive in un’interessante digressione del suo Satchmo: Oltre il mito del jazz, è bene ricordare che la storia del jazz (come quella di tutte le discipline, del resto) non è fatta di repentini cambi di scena, quanto di convivenza (più o meno pacifica, a seconda dei casi) di contrapposte correnti contemporaneamente. «Le storie raccontano l’evoluzione del jazz come un avvicendamento meccanico di stili successivi, legati l’uno all’altro o articolati in strappi violenti: il New Orleans, il Chicago, il bebop, il cool, ecc» scrive Zenni, che prosegue mettendo poi in guardia l’appassionato di jazz da una visione eccessivamente meccanicistica e quindi riduttiva: «nell’immagine che ne deriva, è come se i protagonisti di ogni epoca sparissero all’avvento della successiva. In tal modo è impossibile godere della ricchezza di ciascuna epoca, comprenderne le dinamiche culturali e cogliere le affinità e le risonanze interne». Perciò, prima di procedere nella lettura è bene ricordare che nell’approcciarsi alla storia del jazz è sempre necessario adottare una prospettiva ampia, sincronica, onnicomprensiva, «come se dovessimo tagliare una fetta di storia e osservare la composizione a strati».

 






La nascita del jazz


Quando l’8 Aprile 1920 Carmen venne alla luce in un ospedale del quartiere newyorkese di Harlem, che di lì a poco sarebbe divenuto il centro nevralgico di un importante movimento artistico-culturale afroamericano denominato “Harlem Renassaince”), ciò che oggi chiamiamo jazz poteva già vantare retrospettivamente almeno un paio di decenni di storia. Ma sulla carta il jazz non era che un bebè poco più grande della McRae; basti pensare che quello che oggi ricordiamo come “primo disco jazz della storia” venne inciso a New York solo nel febbraio 1917, da una band il cui nome si rivelò poi profetico: l’Original Dixieland Jass Band (già alla fine di quell’anno l’arcaica nomenclatura “jass” venne sostituita con il più moderno termine “jazz”), costituita – ironia della sorte – da musicisti bianchi di New Orleans, capitanati dal cornettista di origini siciliane Nick La Rocca e sostenuti dalla ritmica efficace di Tony Sbarbaro, batterista il cui nome avrebbe certo fatto la felicità di Francis Ford Coppola.

Ora, senza volersi dilungare troppo, le considerazioni da fare al riguardo sono almeno due. É storicamente noto che il jazz, nonostante i numerosi e pregievoli esponenti bianchi, non sia espressione per eccellenza della cultura bianca europea: sviluppatosi agli inizi del XX secolo primariamente a New Orleans (fondata nel 1718 dai francesi e da allora crogiolo etnico di diverse culture e immigrazioni, fra cui quella spagnola), il jazz è probabilmente l’apogeo della cultura afroamericana e la più emblematica manifestazione della musica afroamericana. Ma come accadde spesso nella storia della black music, anche in questo caso furono dei bianchi a rubare la scena ai loro colleghi afroamericani. Sebbene il livello del gruppo di LaRocca fosse alto e il loro primo successo Livery Stable Blues fosse spassoso ed evocativo, la band non sarebbe forse esistita senza l’esempio di innumerevoli musicisti neri (o creoli) di New Orleans: Buddy Bolden, Freddie Keppard, Joe "King" Oliver, Bunk Johnson, ma anche Mutt Carey, Jimmie Noone, Kid Ory, Jelly Roll Morton e in seguito Sidney Bechet e Louis Armstrong, solo per menzionarne pochissimi. Erano loro che avevano “creato” il jazz e sviluppato il suo caratteristico stile polifonico originario, nel quale le brass bands (che sfilavano lungo le strade di New Orleans o si esibivano sugli showboats che navigavano il fiume Mississippi) rivestivano un ruolo fondamentale, accompagnando quasi ogni momento della vita sociale della città, fra cui feste, picnic, balli e funerali. Ma nel 1917 nessuno di questi pionieri era mai entrato in studio di registrazione, e qualcuno non ci entrò mai.

Con il tempo la storia del jazz avrebbe ristabilito l’ago della bilancia, attribuendo al gruppo di LaRocca la giusta rilevanza storica. Quando qualche anno dopo Louis Armstrong (e prima di lui, il suo maestro Joe Oliver) fece la sua comparsa discografica incidendo diverse facciate con i suoi Hot Five e Hot Seven e dimostrando di saper portare alto il vessillo della tradizione polifonica di New Orleans pur guardando al futuro, apparve chiaro che che la ODJB non era che la punta di un iceberg, la sbiadita riproduzione di una tradizione musicale ben più fervente, quella del Sud, che fu poi denominata Dixieland. Ovviamente il jazz non era nato in quello studio newyorkese nel 1917; da un certo punto di vista, sarebbe anche riduttivo affermare che fosse nato a New Orleans. Il jazz veniva da molto più lontano ed è innegabile che affondasse le sue radici nella diaspora africana. Era il 1619 quando il primo convoglio di neri africani arrivò in Virginia a bordo di una nave battente bandiera olandese, e anche se essi furono inizialmente acquistati come servitori a contratto e non come schiavi, l’evento segnò inequivocabilmente l'inizio dello schiavismo americano. In che misura la musica ha accompagnato la vita degli schiavi in quei quasi trecento anni di storia, che per ovvie ragioni non poterono essere documentati (le prime arcaiche apparecchiature capaci di registrare suoni – come il fonoautogrado del francese Scott de Martinville, il fonografo di Edison e il grammofondo di Berliner - non comparsero che nella seconda parte dell’Ottocento)? Gli storici del jazz molto hanno indagato e scritto al riguardo.

Di certo, gli schiavi poterono coltivare le loro tradizioni musicali solo nelle zone in cui i colonizzatori adottarono una politica meno repressiva. Le arcaiche folk songs nero-americane che si svilupparono (fra queste vi furono forme sia profane sia religiose, note come ring shout, cries, spirituals e calls, altrimenti denominate hollers o whoops) erano quindi strettamente condizionate dalla morfologia del territorio e dalla libertà di cui gli schiavi disponevano nelle varie zone. Ad esempio, se per centinaia di anni agli schiavi furono proibiti gli assembramenti, alla comunità di schiavi neri di New Orleans era invece consentito riunirsi la domenica in Place des Nègres (oggi Congo Square): qui gli schiavi poterono mantenere le loro tradizioni musicali e i loro riti religiosi (i due aspetti erano spesso inscindibili), consistenti in sgargianti canti e balli collettivi accompagnati dal suono dei tamburi o altri strumenti costruiti con mezzi di fortuna. Per l’occasione, essi erano autorizzati anche a mettere su improvvisati mercatini, che permettevano loro di racimolare qualche spicciolo, nella speranza di poter un giorno riscattare la loro libertà. L’affascinante focklore afroamericano continuò a essere celebrato a Congo Square anche dopo la fine dello schiavismo, forse fino agli anni Settanta - Ottanta dell’Ottocento. Pochi anni più tardi, ovvero indicativamente nel periodo a cavallo fra i due secoli e nei primi anni del Novecento in particolare, cominciò a deliniarsi a New Orleans il tradizionale stile polifonico Dixieland, la cui colonna portante era il vivace intreccio contrappuntistico eseguito da cornetta (o tromba), clarinetto e trombone: se alla cornetta veniva affidato il tema principale di un brano, il clarinetto edificava invece una sorta di fitto e agile controcanto in risposta alla melodia guida, mentre contemporaneamente le gravi linee del trombone (ricche di glissati ed effetti ritmici) fungevano da collante fra le note dell’armonia. Il jazz dei primordi consisteva quindi in una celebrazione di contrappunto e timbro: di conseguenza, e sebbene il primo jazz avesse i suoi bandleader (cornettisti in particolare), la figura del solista non era allora così affermata come nel jazz che conosciamo oggi. Inoltre, piuttosto che aspirare a un’artificiosa perfezione formale del suono, fonte del successo di molti strumentisti a fiato del primo jazz fu la loro capacità di imitare il suono della voce umana, riproducendone fedelmente i diversi timbri e colori, così come le sottili variazioni.

La caratteristica formazione delle marching bands di New Orleans – il cui repertorio derivava dalle fonti più disparate, dalle canzoni popolari agli inni, dalle marce ai blues, dai ragtime alla musica da ballo di derivazione europea – comprendeva (oltre al fortunato trio cornette-clarinetti-tromboni nella sezione fiati) anche una sezione ritmica costituita da strumenti quali basso tuba, sax basso, banjo e tamburi (che spesso erano solo due, cassa e rullante, in modo da poter essere comodamente portati a tracolla durante le parate). Ma nella Crescent City (come New Orleans venne soprannominata, richiamando così la forma di mezzaluna del corso del Mississippi) il jazz risuonava ovunque e non solo per le strade o sui battelli: per esempio a Storyville, il celebre quartiere a luci rosse della città, più di chiunque altro svolse il suo apprendistato all’inizio del Novecento il pianista creolo Jelly Roll Morton, che, dotato di un tracotante temperamento, avrebbe sempre rivendicato non solo di essere il padre del jazz, ma anche «il più grande compositore di pezzi hot del mondo» [1].

Nonostante il suo spropositato ego, Morton fu indubbiamente uno dei pionieri del jazz: se non lo inventò, contribuì di fatto a concettualizzarlo (la sua musica, di una complessità strutturale portentosa per l’epoca, era infatti sempre rigorosamente arrangiata). Come se non bastasse, molte enigmatiche considerazioni di Morton (che fu anche un’accuratissima fonte di informazioni sul jazz delle origini, tanto da essere l’autore di una colorita storia del jazz dei primordi registrata per la Library of Congress) danno ancora oggi molto da riflettere agli storici del jazz.

Era inconfutabile che il jazz si fosse inizialmente ispirato al ragtime: nei primi giorni del jazz a New Orleans, il confine fra i due stili era così labile che i due termini erano quasi interscambiabili. Sviluppatosi a cavallo fra i due secoli in Missouri (Sedalia, Carthage e St. Louis erano le residenze di molti compositori rag), il ragtime (da rag, che significa “straccio”, quindi letteralmente “tempo stracciato”) fu uno stile essenzialmente pianistico di grande successo, che non a caso si sviluppò conseguentemente alla diffusione di massa del pianoforte a uso domestico e alla grande popolarità dei pianoforti meccanici. Rigorosamente scritto e caratterizzato da un vivace contrappunto poliritmico, nel ragtime la mano sinistra esegue un energico gioco di bassi (spesso un poderoso ostinato), mentre la destra suona linee melodiche sincopate. Con l’evoluzione dello stile, il ragtime assunse la classica forma AABBACCDD, strutturata in quattro temi, ciascuno di sedici battute, in cui la C modula a una tonalità differente. Anche se alcune composizioni ragtime furono poi adattate per voce e orchestra, tale stile ebbe il suo zenit nel piano solo.

Fra i compositori ragtime spicca senza dubbio Scott Joplin: egli seppe conciliare musica colta e musica popolare, istanze poliritmiche provenienti dall’Africa ed eleganza formale europea. È a lui che si deve il fascino senza tempo di tale musica, l’incredibile orecchiabilità di certe melodie rag, al di là della loro intrinseca complessità ritmica.

D’altronde Joplin aveva ben più alte ambizioni che la semplice composizione di «musica sincopata» (per lui non più di un remunerativo passatempo), e queste lo portarono alla composizione di lavori decisamente più impegnativi rispetto al popolare ragtime che lui stesso contribuì a rendere di moda. Sfortunatamente, al di fuori del genere egli non ebbe in vita il successo sperato. Solo negli anni Settanta del Novecento la musica di Joplin venne riscoperta: non solo il suo rag The Entertainer divenne un singolo di successo a livello mondiale, ma la sua ambiziosa opera Treemonisha, che esplora le origini della musica afromericana e la cui prima fu un totale fiasco, valse all’autore un Pulitzer alla memoria.

Come antecedente del jazz delle origini il blues è importante quasi quanto il ragtime. Così come il jazz arrivò alla ribalta a New Orleans e il ragtime prosperò in Missouri, la zona del Delta del Mississippi fu per il blues un terreno assai fertile.

Il blues sicuramente è – fra gli antenati jazzistici – il genere più prettamente vocale; è inoltre il tipo di musica ad avere le origini più umili (basti pensare che in retrospettiva è stato possibile rintracciare tracce di musica blues in tutti gli Stati ex schiavisti già nel corso del diciannovesimo secolo). Guardando oltre il ben noto termine, che si sarebbe poi esageratamente esteso arrivando a indicare quasi ogni canzone triste, il blues si cristallizzò come forma a sé stante di dodici battute, basata sull’alternanza di tre accordi: tonica, dominante e sottodominante. Dal punto di vista testuale, esso si serviva di una peculiare forma strofica in cui la prima frase veniva ripetuta due volte, seguita poi da una terza frase consonante o in rima (nel passaggio dal V al IV grado fino alla risoluzione sul I). La ciclica forma blues avrebbe poi influenzato tutta la musica pop (anche quella più prettamente bianca) e avrebbe avuto una progenie assai numerosa, contribuendo a creare generi come rock, r&b e funk. Ma non è tutto: anche i moderni boppers negli anni Quaranta si sarebbero basati sulle iconiche dodici battute del blues per comporre i loro contrafacts. Altri aspetti imprescindibili del blues sono le cosidette blue notes: la quinta diminuita e la settima minore, oltre ovviamente alla terza minore, che spesso nella linea vocale si alterna o convive con la terza maggiore (spesso grazie all’utilizzo del bending) e che quindi è la nota maggiormente responsabile della distintiva ambiguità tonale del blues.

Le prime canzoni blues vennero stampate intorno al 1912, ma fra esse divenne celebre solo St. Louis Blues (1914) di W.C Handy. Nel 1920 il singolo Crazy Blues della cantante Mamie Smith aprì la stagione dei race records (lett. “dischi della razza”, ovvero dischi di musica nera destinati al pubblico di colore), decretando il successo discografico del blues e portando poi all’affermazione di numerose altre vocalist (fra queste, Bessie Smith emerse come un’imperatrice assoluta).

Ma la verità è che il blues registrato negli anni Venti aveva un sound molto più urbano di quanto non avesse tale idioma alle origini: il cosidetto blues classico o city blues (come poi venne denominato), che fu prettamente femminile, si avvicinava già per molti versi alla nascente industria musicale di Tin Pan Alley e al jazz, sia per tipo di canzoni e arrangiamenti che per formazione musicale (non a caso nel 1925 Bessie Smith incise a New York varie facciate con una band che comprendeva il sempre più popolare musicista jazz Louis Armstrong).

Il blues classico trasformò rapidamente il genere da folklore popolare a forma di intrattenimento di massa; ciò nonostante il blues aveva una ben più umile discendenza ed era sorto nelle aree agresti più povere del Sud degli Stati Uniti.

Il blues originario, più scarno e rurale (tanto da essere poi denominato country blues), era invece tipicamente caratterizzato da una succinta linea vocale accompagnata da una sola chitarra, sulla quale venivano spesso eseguite tecniche slide al fine di allungare le note, tramite l’ausilio di mezzi di fortuna, come un coltello o una bottiglia. Aveva una struttura musicale detta antifonale, data dall’alternanza fra voce e commento musicale generalmente improvvisato. Il cosidetto country blues faticò non poco prima di essere documentato su disco e ottenne successo commerciale solo dalla fine degli anni Venti in poi, con le registrazioni di bluesmen quali Blind Lemon Jefferson, Charley Patton, Eddie “Son” House e poi Robert Johnson.

 

L’Età del Jazz


Tra il 1910 e il 1920 circa un milione di persone migrò al Nord con destinazione i grandi centri industriali. Molti jazzisti del Sud, anche in seguito alla chiusura dei locali di Storyville nel 1917, ma soprattutto per motivi razziali ed economici, migrarono. Il clarinettista (e in seguito specialista del sax soprano) Sidney Bechet fu ad esempio uno dei primi musicisti di New Orleans ad approdare in Europa, ottenendo sin da subito reazioni entusiastiche. Anni dopo Bechet avrebbe deciso di sfruttare la sua popolarità in Europa per trasferirsi definitivamente in Francia, dove divenne un’amatissima celebrità: lì la stagione del jazz europeo era già stata inaugurata negli Anni Trenta, grazie all’apporto di pregevoli musicisti quali il chitarrista gitano Django Reinhardt e il violinista francese Stéphane Grappelli.

Ma allora la maggior parte dei musicisti del Sud seguirono la Grande Migrazione interna, scegliendo come meta prediletta la città di Chicago. Molti musicisti neorleansiani avevano già lasciato la Big Easy da anni: fra i primi vi furono Jelly Roll Morton e Freddie Keppard, seguiti poi a ruota da Jimmie Noone, Kid Ory, Johnny e Baby Doods, e infine Louis Armstrong (che nel 1922 raggiunse a Chicago il suo maestro King Oliver per suonare in qualità di seconda cornetta nella sua Creole Jazz Band, che si esibiva ai Lincoln Gardens).Sebbene Oliver – che sarebbe poi morto nel 1938 dopo un periodo di declino artistico causato da problemi economici e di salute – fosse ancora in piena forma, Armstrong arrivò col tempo a ecclissare il talento del suo mentore. Nonostante avesse perfezionato le sue capacità in ensemble in cui i momenti solistici erano limitati, nel corso degli anni Venti Armstrong (incidendo prima con il gruppo di Oliver, successivamente con l’orchestra di Fletcher Henderson, poi come “turnista” in varie sessioni di cantanti blues e infine come leader con i suoi Hot Five e Hot Seven) cambiò inevitabilmente la storia del jazz, decretando l’obsolescenza del jazz collettivo di New Orleans e la nascita di una concezione più individualistica. In altre parole, Armstrong dette avvio all’era del solismo nel jazz, ispirando da quel momento in poi (e fino al giorno d’oggi) schiere di musicisti: lo stesso Miles Davis avrebbe affermato che «non è possibile suonare qualcosa su una tromba che Louis Armstrong non abbia già suonato». Come se non bastasse, Satchmo fu anche un pioniere del canto jazz: il suo stile vocale avrebbe avuto un’enorme influenza su quello di molti futuri vocalist, non a caso Leslie Gourse avrebbe intitolato il suo manuale sulla storia del canto jazz Louis’ Children (lett. “I Figli di Louis”). Nel corso del Nel leggere questo scritto, i tenga presente che sulle vicende storiche del jazz eminenti e ben più autorevoli autori hanno speso fiumi d’inchiostro. Lungi perciò dal voler scrivere una definitivantosa per l’epoca, era infatti sempre rigorosamente arrangiata).Come se non bastasse, molte enigmatiche considerazioni di Morton (che fu anche un’accuratissima fonte di informazioni sul jazz delle origini, tanto da essere l’autore di una colorita storia del jazz dei primordi registrata per la Library of Congress) danno ancora oggi molto da riflettere agli storici del jazz.l 1938 dopo un periodo di declino artistico causato da problemi economici e di salute – fosse ancora in piena forma, Armstrong arrivò col tempo a ecclissare il talento del suo mentore. Nonostante avesse perfezionato le sue capacità in ensemble in cui i momenti solistici erano limitati, nel corso degli anni Venti Armstrong (incidendo prima con il gruppo di Oliver, successivamente con l’orchestra di Fletcher Henderson, poi come “turnista” in varie sessioni di cantanti blues e infine come leader con i suoi Hot Five e Hot Seven) cambiò inevitabilmente la storia del jazz, decretando l’obsolescenza del jazz collettivo di New Orleans e la nascita di una concezione più individualistica. In altre parole, Armstrong dette avvio all’era del solismo nel jazz, ispirando da quel momento in poi (e fino al giorno d’oggi) schiere di musicisti: lo stesso Miles Davis avrebbe affermato che «non è possibile suonare qualcosa su una tromba che Louis Armstrong non abbia già suonato». Come se non bastasse, Satchmo fu anche un pioniere del canto jazz: il suo stile vocale avrebbe avuto un’enorme influenza su quello di molti futuri vocalist, non a caso Leslie Gourse avrebbe intitolato il suo manuale sulla storia del canto jazz Louis’ Children (lett. “I Figli di Louis”). Nel corso del XX secolo, la mondiale celebrità raggiunta da Armstrong e il suo status di icona pop avrebbero quasi rischiato di oscurare l’enormità del suo talento. Ma la verità è che, oltre all’immagine, la vera grandezza di Louis risiederà sempre nella sua musica.


Com’era prevedibile, il jazz – nato in una pigra e calda città meridionale e improvvisamente sbalzato in una fredda e aggressiva metropoli industriale del Nord – a Chicago immancabilmente si modificò. Ad esempio il trombone, con i suoi caratteristici portamenti glissati tipici del primo jazz (detti tailgate) fu spesso sostituito dal sassofono tenore; le linee arpeggiate dei clarinettisti di New Orleans furono sostituite da fraseggi più vicini a quelli solistici della cornetta (su esempio di Leon Roppolo e Frank Teschemacher, che avrebbero poi influenzato non poco Benny Goodman); mentre le strutture monotematiche e il blues suonati a New Orleans furono relegati e sostituiti dalle canzoni pop più in voga e dalla gettonata struttura a 32 battute. Non è inoltre da sottovalutare l’attrattiva che la musica colta di matrice europea esercitò su molti dei frequentatori abituali del cosiddetto Chicago Style, molti dei quali erano bianchi residenti nella Windy City (o nei dintorni): fra questi si ricordano il cornettista Bix Beiderbecke – che con il suo lirismo e il suo timbro soffice sarebbe forse divenuto il perfetto antagonista di Louis Armstrong, se l’alcolismo non avesse spezzato la sua carriera a soli ventotto anni – e il sassofonista Frankie Trumbauer, suo alter ego musicale. Fra i nativi della metropoli dell’Illinois si ricordano anche – fra gli altri – il tenorsassofonista Bud Freeman, i clarinettisti Frank Teschemacher e Benny Goodman, il cornettista Jimmy McPartland. Sebbene il jazz di Chicago fosse ancora un inno allo stile di New Orleans e vedesse molti nativi della Big Easy fra i suoi esponenti, esso alla fine degli anni Venti già indicava la tradizione che nel jazz sarebbe venuta dopo, quella dello swing, della big band dagli strutturati arrangiamenti e della separazione netta fra assolo ed esecuzione d’ensemble.

Così come la maggior parte del jazz di New Orleans potè essere documentato solo a Chicago (va da sé che non esistevano ancora studi di registrazione nel rurale Sud), il sound affermatosi nella Windy City trovò in seguito una residenza più confortevole nella città di New York, e in particolare a Harlem, quartiere nero situato a nord della penisola di Manhattan. Da quel momento in poi, l’epicentro del jazz non si sarebbe più spostato dalla metropoli sulle rive dell’Hudson, anche se tale musica avrebbe guadagnato con il tempo proseliti e adepti in tutto il mondo, con conseguente parziale affrancamento dal modello statunitense.

Come è già stato detto, in quegli anni ruggenti raccontati così efficacemente da Scott Fitzgerald, il pianoforte ebbe a Harlem un ruolo di particolare rilievo e fu il principale elemento di discordia nella diatriba fra cultura musicale europea (parte integrante dell’educazione della nascente borghesia nera) e musica popolare afroamericana, che in particolare sugli ottantotto tasti veniva suonata da musicisti neri nei locali notturni della città, accompagnata magari da alcol di contrabbando e spettacoli non sempre adatti a un pubblico under 21. Verso la fine degli anni Venti si sviluppò a Harlem anche un peculiare stile pianistico chiamato stride e mutuato dalle istanze del ragtime; più o meno nello stesso periodo un altro genere afroamericano, prettamente pianistico e strettamente legato al blues (chiamato boogie-woogie) attirò l’industria musicale, divenendo però di moda solo all’inizio degli anni Quaranta.

 

L’Era dello Swing


Ma l’immagine più iconica, quella che per antonomasia si lega agli anni d’oro del jazz è sicuramente rappresentata dalle tradizionali quattro sezioni della big band, che per almeno due lustri accompagnarono a suon di swing nelle sale da ballo di tutto il Paese le scatenate danze di giovani bianchi e neri.

Verso la metà degli anni Venti il pianista e caporchestra Fletcher Henderson (insieme al suo arrangiatore Don Redman) aiutò non poco a definire il sound delle emergenti big band: per creare quelli che sarebbero poi divenuti i principi base dell’orchestrazione jazz egli si ispirò non solo alla tradizione di New Orleans e Chicago, ma ancor di più ai vari stili di musica da ballo (fra questi, molti erano europei), popolari in quel periodo a New York. Avvalendosi di talenti jazzistici di altissima levatura (dai sassofonisti Coleman Hawkins, Lester Young, Ben Webster e Benny Carter, sino ai trombettisti Louis Armstrong e Roy Eldridge) Henderson sostituì la polifonia di New Orleans raddoppiandone le voci e dividendo i vari strumenti in sezioni orchestrali: sassofoni (che andarono così a sostituire i clarinetti usati nel primo jazz), trombe, tromboni e ritmica. Henderson perfezionò varie tecniche di arrangiamento, mantenendo l’assolo hot il costante centro della sua musica, e a ben vedere, vista la concentrazione di fuoriclasse che sedevano fra le file della sua big band.

Sebbene i due musicisti fossero praticamente coetanei, nella cronologia jazzistica a Fletcher Henderson si fa generalmente seguire Duke Ellington, che fu forse il più importante fra i direttori d’orchestra jazz, poichè seppe trasformare il sound della big band da ballo in una suggestiva tavolozza sonora, in un mosaico di colori. Informalmente nominato “Duca” dagli amanti del jazz per via della sua indistinguibile classe, egli fece un importante balzo nella sua carriera quando fu assunto con la sua orchestra al Cotton Club, dove rimase dal 1927 al 1931 (poi sostituito da Cab Calloway). Più di chiunque altro Ellington seppe elevare il jazz al livello di musica d’arte, combinando gusto europeo per la composizione e musica popolare. Duke seppe comporre opere di ampio respiro (Black, Brown and Beige è per esempio un superbo affresco musicale della storia afroamericana), ottenere contemporaneamente successi commerciali (Mood Indigo, Satin Doll, In a Sentimental Mood, Take The A Train, Sophisticated Lady, Don’t Get Around Much Anymore, Do Nothing ‘Till You Hear From Me sono solo alcuni di questi) ma soprattutto egli seppe appropriarsi delle idee dei talentuosi membri della sua orchestra («Sì, sono il più grande ascoltatore del mondo» avrebbe scritto nella sua autobiografia), scrivendo così brani “su misura” per loro e mettendo insieme un ensemble dai timbri non necessariamente virtuosistici, ma senza dubbio unici. Non a caso, l’orchestra di Ellington fu forse la più longeva fra le big band: se molte di queste nel dopoguerra furono costrette a sciogliersi poiché il loro pubblico era interessato essenzialmente alla musica da ballo, l’orchestra di Ellington rimase in auge fino alla vigilia della morte del suo leader, sopravvenuta nel 1974.

Ma facciamo adesso un passo indietro, riavvolgendo il nastro fino a quel 2 febbraio 1932, giorno in cui Duke Ellington incise in uno studio di New York una sua (poi divenuta celebre) composizione, che avrebbe incarnato lo slogan di un’epoca: It Don’t Mean a Thing If It Ain’t Got that Swing, “non significa nulla se non swinga in quel certo modo”. La sua cantante Ivie Anderson probabilmente cantò inconsapevolmente quelle parole, pronunciando quel vocabolo (swing, lett. “dondolìo”) senza immaginare che da quel momento in poi avrebbe percorso in lungo e in largo il Paese, arrivando a denominare, nel giro di pochi anni, lo stile jazzistico che dominò lo scenario musicale per circa un decennio. Allora l’America – che si stava ancora leccando le ferite per via degli effetti disastrosi della Grande Depressione – era infatti agli albori della cosidetta swing craze, la "follia dello swing", che dominò il decennio 1935-1945 (poi appunto definito Era dello Swing).

Per quanti onori sia giusto tributare a Ellington, va da sé che non fu lui a inventare lo swing, né in senso strettamente musicale, né come genere. Come molti altri brani del periodo, la facciata incisa da Duke si avvaleva di una caratteristica scansione ritmica (poi denominata appunto swing): questa era fortemente evidenziata, consistente in un continuo e ossessivo dondolìo ritmico, ed era capace di suscitare negli ascoltatori una febbre incontenibile che invita irresistibilmente al ballo. Il verbo to swing, che denota vitalità e movimento, venne così preso a prestito dalla società bianca e congelato in un sostantivo (“lo swing”), che definì da quel momento in poi il nuovo elettrizzante e trascinante genere. Questa musica inebriante si diffuse anche grazie ai vari musicisti bianchi che militarono fra le sue fila: fra questi vi erano il clarinettista e caporchestra Benny Goodman, la cui versione del brano di Louis Prima «Sing, Sing, Sing», ancora oggi considerata una delle pietre miliari del genere, infiammò i ballerini di tutta la nazione. È quindi giusto riferirsi allo swing come a un genere musicale, ma non è tutto: in senso più prettamente tecnico lo swing è anche un modo tipico della musica jazz di eseguire le note. Il ritmo dondolante, claudicante, saltellante tipico dello swing ha quindi delle caratteristiche musicali peculiari: semplificando molto e cercando di tradurre in un linguaggio tecnico questo feel, potremmo dire che lo swing consiste nel suonare note terzinate su tempi binari: ad esempio, un musicista jazz che si trovi a leggere sullo spartito due crome suonerà una terzina di crome con le prime due note legate. Infine, è bene ricordare che in gergo jazzistico "avere swing" (o “swingare”) significa anche avere feeling, essere musicalmente espressivi e comunicativi: in questo senso lo swing può caratterizzare un brano, una band o un artista.

Se volessimo fare una breve carrellata, una sorta di wall of fame della l’Era dello Swing potremmo ricordare – oltre alle big band già menzionate, anche quelle afroamericane di Jimmie Lunceford, Cab Calloway, Chick Webb e Count Basie (rimanete sintonizzati per una più corposa descrizione del suo stile); degne di nota sono anche le big band bianche di Glenn Miller, Paul Whiteman, Stan Kenton, Woody Herman, Tommy Dorsey, Jean Goldkette e Ben Pollack, fra le altre.

A fare da contraltare a “Duke” nel vasto universo jazzistico fatto di nomignoli spesso presi a prestito da altisonanti titoli nobiliari vi era William Basie detto “Count”, pianista, compositore e band leader afroamericano, oltre che esponente fra i più importanti del jazz di Kansas City. Città di mentalità aperta e tollerante (anche se ciò dipendeva principalmente dall’amministrazione corrotta), Kansas City, quasi come una degna antesignana di Las Vegas, favorì negli anni Trenta le attività di cabaret e locali notturni diretti da gangster, dimostrandosi così un ambiente estremamente ospitale per molti amanti del vizio. La spiccata predilezione per il blues, i semplici arrangiamenti orchestrali mandati a memoria, una scansione del tempo in 4/4 (diversamente dal jazz primordiale di New Orleans) e l’utilizzo di tempi generalmente medium: questi furono fra gli elementi caratterizzanti lo stile di Kansas City. Fu Count Basie, che incarnava a pieno l’estetica musicale della città, a portare al suo culmine creativo l’idioma del Kansas City jazz: verso la metà degli anni Trenta il “Conte” Basie (con cui fra l’altro la McRae avrebbe collaborato per un breve periodo anni dopo) mise insieme un’orchestra che trasudava swing da tutti i pori, grazie anche all’apporto di una sezione ritmica costituita oltre che da lui stesso, anche da Jo Jones, Walter Page e Freddie Green.

Decisamente più fluido e rilassato di quello di altre orchestre del periodo, lo swing difficilmente eguagliabile del complesso di Basie si basava su uno stile batteristico incentrato sull’utilizzo del charleston, piuttosto che sulla propulsione della cassa. Ma contemporaneamente al mutato ruolo della batteria, era soprattutto il piano ad avere nel gruppo di Basie il ruolo più innovativo. Abbandonato il tradizionale stile stride e svincolato dal ruolo di accompagnamento, la funzione del piano di Basie era per eccellenza quella del comping: espressivo interlocutore, esso rispondeva al solista con iconiche frasi melodiche e armoniche, sottolineava accenti ritmici e inseriva parodistici commenti musicali. D’altronde nella musica di Basie anche una sola nota, un semplice abbellimento, erano densi di significato e sense of humour. L’unicità e l’eterna freschezza dello stile di Basie ancora oggi risiedono nella sua capacità di far commentare, sussurare, scherzare e persino tacere il piano, creando silenzi talvolta estremamente eloquenti: ascoltandolo, si ha l’impressione che il pianista più di tutti, riuscisse a fare molto, con poco. Anche dal punto di vista dell’orchestrazione l’approccio di Basie si dimostrò minimalistico, basandosi per lo più su essenziali head arrangements, la cui linfa vitale erano i brevi e propulsivi riff ritmici ripetuti a oltranza al fine di creare un efficace sottofondo per l’assolo.

Fra le principali orchestre dell’Era dello Swing è doveroso menzionare anche quella di Benny Goodman, clarinettista ebreo di formazione classica che esordì giovanissimo nella natia Chicago, facendosi notare per la sonorità pulita del suo clarinetto oltre che per l’agile e swingante fraseggio, che gli valse il titolo di “Re dello Swing”. L’orchestra di Goodman fu la prima jazz band a esibirsi alla Carnegie Hall di New York, da sempre tempio inviolabile della musica classica: se fino a quel momento il jazz si era affermato come musica di intrattenimento e da ballo, rimanendo confinato a luoghi di svago, finalmente il 16 Gennaio 1938 (con il concerto di Goodman e della sua orchestra alla Carnegie Hall) venne riconosciuta la dignità d’arte di tale musica, che divenne così una legittima colonna sonora della vita quotidiana statunitense.

L’evento condusse negli anni immediatamente successivi a un pullulare di eventi jazzistici, tenutisi nelle più prestigiose concert hall del Paese (si ricordi ad esempio la serie di concerti Jazz at the Philarmonic, prodotti da Norman Granz e inaugurati a Los Angeles a partire dal 1944); e dal dopoguerra in poi divenne prassi comune assistere a un’esibizione jazz in una sala da concerto.

Da menzionare è, in ultimo, il sempre ammirevole sforzo di Goodman nella lotta interraziale: basti pensare che in quel famoso concerto del 1938 il musicista (che in quella come in molte altre occasioni non si esibì solamente con la sua orchestra al completo ma anche con formazioni più ristrette) si servì della sua eminenza per ospitare sul palco un quartetto costituito, oltre che da lui e dal batterista bianco Gene Krupa, anche da Lionel Hampton e Teddy Wilson (rispettivamente vibrafonista e pianista), entrambi afroamericani. Fra i musicisti afroamericani che collaborarono con Goodman nel corso della sua carriera vi furono anche – fra gli altri, Charlie Cristian, chitarrista e padre della chitarra elettrica nel jazz e Lester Young, virtuoso del sax tenore fra i più importanti e antesignano del cool jazz per il suo stile disteso e rilassato.

 

La scena jazzistica di Harlem all’inizio degli anni Quaranta e la nascita del bebop

Il crescente interesse di Carmen per il jazz e la sua frequentazione dei locali notturni di Harlem coincisero con la metamorfosi dello swing nel bebop, e lei ebbe il privilegio di assistere da vicino all’evoluzione della nuova musica. Nel periodo a cavallo fra la fine degli anni Trenta e l’inizio degli anni Quaranta lo swing era ancora molto di moda, e tutte le big band più importanti si esibivano nei club, nelle sale da ballo e persino nei teatri newyorkesi. Sfortunatamente, in alcuni locali di Harlem l’accesso ai neri era ancora precluso. È il caso del leggendario Cotton Club (che con il tempo arrivò a modificare leggermente la sua politica di esclusione del pubblico di colore): di proprietà di un gangster, molto in voga negli anni del proibizionismo (ma chiuso a metà degli anni Trenta a causa di alcune sommosse razziali), il locale offrì al giovane Duke Ellington il suo primo ingaggio di rilievo nel 1927. Ma nonostante la presenza di night club per soli bianchi dell’alta società, fortunatamente gli afroamericani di Harlem potevano comunque contare su molti altri ritrovi notturni: all’epoca i «cabaret di colore di rango più basso» a Harlem erano infatti oltre cinquecento. Locali come il Puss Johnson’s Club, il The Nest, lo Small Paradise o il Connie’s Inn (che vide la nascita dello spettacolo Hot Chocolates di Fats Waller, nel quale collaborò anche Louis Armstrong) furono in quegli anni luoghi di ritrovo abituali per musicisti.

Nelle sale da ballo – come il Savoy Ballroom, il Renaissance e il Golden Gate – le migliori band gareggiavano ferocemente sfidandosi a colpi di swing in quelli che i musicisti definivano cutting contest. Anche L’Apollo Theater godeva di grande popolarità: ogni settimana vi suonava una differente swing band guidata da star come Duke Ellington, Count Basie, Cab Calloway e Benny Carter. Fu proprio l’Apolloa lanciare due delle più grandi cantanti jazz di tutti i tempi: lì Ella Fitzgerald vinse nel ‘34 una Amateur Night (ovvero una serata dedicata alle competizioni canore dei dilettanti), venendo in seguito assunta dall’orchestra di Chick Webb; mentre Sarah Vaughan vinse un concorso di canto organizzato nel ‘42 e – ascoltata dal cantante Billy Eckstine – fu subito scritturata dalla band di Earl “Fatha” Hines come seconda cantante e all’occorrenza pianista.

Ma i locali dove si assistette ai primi vagiti de “la Nuova Cosa” (o bebop, come sarebbe stato successivamente chiamato) all’inizio degli anni Quaranta furono principalmente il Minton’s Playhouse e il Monroe's. Dopo aver aperto i battenti a Harlem nel 1930 ed essersi poi trasferito sulla Cinquantaduesima Strada (poi nota come “swing street” per eccellenza) nel 1943, il Monroe’s (il cui nome completo era Clark Monroe's Uptown House) ospitò nel corso degli anni Trenta varie stelle dell’Era dello Swing (fra cui Billie Holiday) per poi divenire all’inizio degli anni Quaranta noto per le sue jam session (molte delle quali vennero registrate e commercializzate negli anni successivi): alle sessioni del Monroe’s presero parte molti aderenti alla nuova avvenieristica corrente musicale, fra cui Charlie Christian, stella incontrastata della chitarra bop.

Nel 1938, Henry Minton, sassofonista e primo afroamericano facente parte dell’American Federation of Musicians, decise di rinnovare una saletta fatiscente adiacente all'Hotel Cecil per farne un jazz club. Minton era per giunta un agente del Rhythm Club, luogo di ritrovo e agenzia di collocamento per gli artisti, che regolava la scala dei salari, forniva ai musicisti un luogo dove provare e trovava loro ingaggi nei club di Harlem. Dotato di un temperamento affabile e generoso, Minton era ben voluto e rispettato all’interno della comunità creativa di Harlem e anche per questo sperava che il suo locale diventasse con il tempo una delle maggiori attrazioni del quartiere. Cercando di dare al club un richiamo, Minton chiese all'amico Teddy Hill, sassofonista a sua volta, di divenirne il direttore artistico: egli si rivelò la persona giusta e in seguito sarebbe stato ricordato più per le sue capacità manageriali che come musicista. Al Minton’s, Hill mise ben presto insieme una house band d’eccezione, costituita – oltre che dal trombettista Joe Guy e dal contrabbassista Nick Finton – dal pianista Thelonious Monk e dal batterista Kenny Clarke. Per lanciare il locale, Henry Minton fece inoltre una scaltra convenzione con gli Schiffman, i proprietari dell'Apollo Theater, affinchè i loro entertainer cenassero lì nel loro giorno libero, il lunedì sera. I ricchi pasti del locale (che venivano consumati mentre la house band suonava) cominciarono gradualmente ad attrarre anche altri musicisti, seguiti a ruota da un fitto stuolo di cultori. Il lunedì era infatti day-off anche per molti altri orchestrali, impegnati, nei restanti giorni della settimana, a far muovere i piedi della borghesia bianca di Broadway a suon di swing.

Doveva essere per loro una vera liberazione potersi finalmente liberare dalle complesse trame degli arrangiamenti per big band per abbandonarsi a lunghe e disinibite improvvisazioni: difatti, uno dei segreti del successo del Minton's fu la possibilità di prendere parte alle jam session gratuitamente, cosa invece illegale altrove. In genere l'American Federation of Musicians (per cui Minton lavorava) puniva i musicisti trasgressori con una multa, ma egli aveva abbastanza influenza da ignorare tale regola, e questo fece sì che i musicisti arrivassero a flotte, sia per suonare che per ascoltare i colleghi più anziani: in un’epoca in cui non esistevano scuole di musica jazz, sedersi ad ascoltare era infatti l'unico modo, per i giovani apprendisti jazzmen, di migliorare.

I musicisti che andavano alle sessioni notturne del Minton’s avevano avuto le loro prime esperienze professionali come orchestrali nelle big band: fra questi vi erano anche coloro che furono poi considerati i principali inventori del bebop, l’altosassofonista Charlie “Bird” Parker (proveniente da Kansas City, che negli anni Trenta fu un importante laboratorio per il jazz) e il trombettista John Birks “Dizzy” Gillespie (originario della Carolina del Sud e allora già affermatosi come il migliore fra gli epigoni di Roy Eldridge, di cui era leggermente più giovane). Parker e Gillespie avevano lavorato insieme nell’orchestra di Earl Hines; erano giovani, e come tali avevano un atteggiamento di sfida nei confronti dei musicisti più anziani, che chiamavano “moldy figs” (fichi ammuffiti). Il nervosismo degli anni di guerra e la volontà degli afroamericani di affermare i propri diritti ispirarono il nuovo, ardito stile musicale: quella del bebop fu quindi una vera e propria rivoluzione ideologica e non solo strettamente musicale. In pieno periodo bellico, le orchestre swing (in particolare quella di Glenn Miller) vennero promosse attivamente al fine di mantenere il morale alto fra i soldati; ma nelle loro file militavano musicisti bianchi che si accaparravano le sempre più scarse occasioni di lavoro. Di conseguenza i musicisti afroamericani, sia per motivi ideologici che per motivi pratici, si liberarono dai rigidi arrangiamenti delle big band, passando a formazioni più ridotte: quella più tipica era costituita da un quintetto che comprendeva tromba, sax tenore o contralto, pianoforte, contrabbasso e batteria. Ma il bebopsi contrapponeva allo swing anche sotto molti altri punti di vista: i boppers (così si chiamavano i fautori del nuovo stile) bandirono sistematicamente dalla loro musica tutto ciò che era banale, scontato, ballabile o gradito al pubblico medio dell’epoca: non stupisce che la loro musica fosse vista come volutamente provocatoria e aggressiva.

La musica che si suonava al Minton’s e al Monroe’s non era più musica da ballo, ma musica d’ascolto. Caratterizzata da tempi velocissimi e da elaborazioni armoniche e ritmiche intricate, era impossibile da ballare; il 2/4 del jazz di New Orleans era ormai stato definitivamente rimpiazzato dal 4/4 (come del resto già nel Kansas City jazz). Le composizioni originali furono sostituite da contrafacts (confraffatti), improvvisazioni elaborate su noti giri armonici preesistenti (spesso si trattava di forme canzone di trentadue battute oppure di blues di dodici) che – anche per risparmiare sui diritti d’autore – diventarono così nuovi brani.

La linfa vitale delle improvvisazioni bebop, fulcro della nuova musica, si basava sull’uso costante degli intervalli più alti dell’accordo, ovvero di estensioni come none, undicesime e tredicesime. Negli anni successivi, il bebop e le sue ramificazioni si evolsero fino a diventare il principale idioma del jazz, e oggi lo stile jazzistico mainstream si rifà essenzialmente alle elaborazioni stilistiche del bebop. I principali rappresentanti di tale stile furono (oltre a Parker e Gillespie), i pianisti Thelonious Monk e Bud Powell e il batterista Kenny Clarke.

Sebbene meno conosciuto rispetto ad altri fautori del genere, Kenny Clarke, primo marito della McRae, fu un co-inventore del bebop, e fu senza dubbio il primo batterista bebop della storia. Prima di Clarke, lo swing feel veniva reso utilizzando la cassa (bassdrum) come elemento ritmico portante: egli cominciò ad accompagnare spostando sul piatto (ride) il focus del drumming, innovazione questa divenuta oggi peculiare nell’ambito della batteria jazz. Clarke continuava ovviamente a utilizzare la cassa della batteria, ma lo faceva in maniera del tutto differente: svincolata ormai dal precedente ruolo primario e resa quindi molto più libera, serviva ora principalmente a marcare gli accenti, quelli che in gergo jazzistico vennero poi definiti bass drums bombs o dropping bombs. Grazie al suo stile distintivo Kenny Clarke si guadagnò il soprannome “Klook-Mop” (successivamente abbreviato in "Klook"), in imitazione del suono degli improvvisi accenti di cassa: egli sarebbe diventato una pietra miliare della storia della batteria jazz moderna, influenzando batteristi come Max Roach.

 

Panoramica sul contesto musicale degli anni Cinquanta: cool jazz, west coast jazz, hard bop, soul jazz, modal jazz, third stream

L’ascesa del bebop spaccò in due il mondo del jazz, creando inevitabili polemiche e contraddizioni. Da un lato, vi erano i veterani dell’Era dello Swing che – com’è prevedibile – attaccarono senza risparmio gli sfrontati boppers. Era però difficile pronosticare lo straordinario Dixieland Revival al quale si assistette per un breve periodo verso la fine degli anni Quaranta: il jazz dei primordi tornò alla ribalta, portando a una ripresa nelle carriere di alcuni pionieri del jazz quali Bunk Johnson.

Ma l’incendio del bop non poteva spegnersi tanto facilmente, poichè la sua ascesa aveva già rivoluzionato completamente il mondo del jazz. Dopo il bebop, niente sarebbe rimasto come prima: il jazz moderno era ormai nato.

Nel corso degli anni Cinquanta una serie di stili alternativi fecero la loro comparsa sulla scena jazzistica, ciascuno con un folto gruppo di seguaci: cool jazz, west coast jazz, hard bop, soul jazz, modal jazz, third stream sono alcuni dei nomi utilizzati per definirli. Alcuni dei musicisti guida del cool jazz avevano fatto parte dei principali gruppi bop e conoscevano bene quel linguaggio: Miles Davis ad esempio aveva lavorato con Parker, ma nel ‘48, disturbato dalla distruttiva tossicodipendenza del grande sassofonista, aveva lasciato la band per iniziare una collaborazione poi rivelatasi estremamente profiqua, quella con Gil Evans, pianista e all’epoca fine e innovativo arrangiatore per l’orchestra di Claude Thornhill, ensemble dalla sonorità limpida e rilassata costituito da strumenti singolari, quali tuba, corni, flauti e ottoni sordinati (elementi questi, ai quali Miles si ispirò non poco per creare il nuovo sound di cui era alla ricerca). In quel periodo il seminterrato di Evans fu un improbabile salotto musicale in cui venne deliniandosi il nuovo movimento del cool jazz, fucina di grandi talenti musicali: Davis, Gerry Mulligan, Lee Konitz, John Lewis e Max Roach erano spesso fra i musicisti presenti. Davis ed Evans misero insieme un‘insolita formazione musicale, un nonetto senza sax tenore (quasi un’eresia per un’orchestra jazz dell’epoca) in cui era il sound del corno a fondersi con quello dei sassofoni e della tromba di Davis. La tuba, che riportava ai giorni di New Orleans, veniva utilizzata per sostenere la parte grave delle armonie: questo lasciava il sax baritono di Mulligan libero di suonare in un registro più alto, a volte raddoppiando le linee di Davis o Konitz al sax alto. La band – che ebbe vita breve – mostrò un nuovo modo (seppure rispettoso della tradizione) di scrivere per grandi ensemble jazzistici, grazie al modo innovativo in cui gli assoli improvvisati venivano inseriti in modo logico e coerente all’interno della struttura orchestrale. Prima di sciogliersi definitivamente, la cosidetta Tuba band (che comprendeva fra gli altri oltre a Miles alla tromba, John Lewis al pianoforte, Gunther Schuller al corno francese, Kenny Clarke e Max Roach alla batteria) registrò fra il ‘49 e il ‘50 alcune facciate che vennero pubblicate solo nel 1957 nello storico album Birth of the Cool.

Ma quando il disco uscì, un nuovo genere, ispirato ai timbri soffusi, al blend degli strumenti e agli arrangiamenti del gruppo di Davis stava già impazzando in California. Sebbene Miles Davis (che fu sempre un precursore di nuovi stili jazzistici), potesse essere definito l’inventore del cosiddetto cool jazz, ad avere più successo di lui fu negli anni Cinquanta un quartetto di talentuosi musicisti bianchi senza pianoforte, che vedeva il suo ex collega Gerry Mulligan al sax baritono e Chet Baker alla tromba. Così come Duke Ellington o Count Basie non furono mai denominati i “re dello swing”, la leadership del movimento cool fu essenzialmente bianca. Il nuovo stile si ispirava certamente al raffinato mood davisiano, ma ebbe il merito di renderlo più solare e lineare, e quindi più appetibile commercialmente: tempi rilassati, liriche e placide improvvisazioni, caldo romanticismo e dolcezza melodica furono le caratteristiche del nuovo stile, poi definito anche west coast jazz, che riscosse un successo particolare fra gli intellettuali (all’epoca l’ambiente culturale californiano era in particolare fermento per via della nascita della beat generation, e il cool jazz si dimostrò il tappeto sonoro perfetto per i recitativi dei poeti beat).

Con il tempo anche il gruppo di Davis sarebbe stato riconosciuto come uno dei più innovativi della storia del jazz, ma nel corso della sua breve esistenza ricevette ben poca attenzione. Miles avrebbe continuato a sviluppare il suo sound: presto sarebbe salpato verso un nuovo (e allora sconosciuto) porto musicale, quello del cosidetto jazz modale.

Fra gli altri ex membri del nonetto di Davis, vale la pena ricordare anche il pianista John Lewis, che negli anni Cinquanta avviò un’importante carriera concertistica come direttore del Modern Jazz Quartet (inizialmente raccoltosi intorno a Milt Jackson e comprendente anche Kenny Clarke in un primo momento alla batteria).

Insieme al cornista Gunther Schuller, il MJQ (che godè di grande longevità e popolarità) contribuì alla nascita della cosiddetta third stream (lett.”terza corrente”), un’ambiziosa diramazione del cool che auspicava di abbattere le barriere fra jazz e musica classica.

Nonostante non abbia mai fatto parte del nonetto di Davis, anche il tenor sassofonista Stan Getz (che all’inizio della sua carriera lavorò nell’orchestra di Woody Herman) merita di essere annoverato come uno dei più importanti musicisti cool del periodo. Getz fu anche uno dei primi a rendersi conto della potenzialità della musica brasiliana e in particolare della nascente bossa nova, genere che contribuì a rendere universalmente celebre negli anni Sessanta.

Dopo l’avvento del bebop a svilupparsi sulla Costa Est degli Stati Uniti fu invece lo stile poi definito hard bop: si trattava di una musica dalla sonorità vigorosa e robusta, impetuosa e protestataria, ma allo stesso tempo decisamente più commerciale, e in essa confluivano stilemi legati alla musica gospel, ai ritmi latini e afrocubani e al rhythm & blues. L’hard bop riscoprì l’interesse verso l’arrangiamento per piccolo ensemble: i Jazz Messengers del batterista Art Blakey (la cui prima formazione comprese oltre a Blakey, Kenny Dorham alla tromba, Hank Mobley al sax tenore, Doug Watkins al basso e Horace Silver al pianoforte) costituirono una sorta di accademia informale del nuovo stile. Né va dimenticato che con l’avvento dell’hard bop persero attrattiva tutti gli standard mutuati dalla musica leggera americana, che nei decenni precedenti avevano scalato le classifiche costruendo la fortuna della musica jazz.

Dagli anni Cinquanta in poi si moltiplicarono così le composizioni jazzistiche originali, che sempre di più relegarono la voce a un ruolo di secondo piano, affidando agli strumenti quello di protagonisti assoluti. Successivamente allo sviluppo dell’hard bop (la cui matrice, come è stato detto, fu sempre lo schema armonico del blues) nacque il soul jazz, nel quale l’influenza del blues e del gospel è ancora più evidente; non è un caso che molti musicisti protagonisti di questo nuovo genere avessero suonato nelle chiese durante i loro anni di formazione. Fu Horace Silver a dare avvio a questa nuova stagione del jazz, con l’album The Preacher (1953); ciò nonostante la massima fioritura di questa corrente si colloca all’inizio degli anni Sessanta, in particolare grazie al contributo di musicisti come – oltre allo stesso Silver – Art Blakey e Cannonball Adderley.

Il vero protagonista del soul jazz fu però, senza alcun dubbio, l’organo hammond. Nato come sostituto dell’organo da chiesa, l’hammond poteva facilmente sostituire, nel suo registro più grave, il ruolo del contrabbasso (paradigmatici sono gli walking bass eseguiti con l’organo) e suonare melodia e accompagnamento nella zona più acuta. Fra gli organisti, Jimmy Smith fu certamente colui che contribuì maggiormente allo sviluppo e alla popolarità del soul jazz.

La fine degli anni Cinquanta vide inoltre l’emergere del jazz modale (o modal jazz). Il fondamento teorico di questo stile è certamente costituito dal testo Lydian Chromatic Concept of Tonal Organization (The art and science of tonal gravity) di George Russell; dal punto di vista musicale, quasi tutti i critici identificano il disco Kind of Blue (1959) di Miles Davis come il primo album modale della storia del jazz. Il modal jazz non richiedeva che gli accordi fossero necessariamente rispondenti alle regole dell’armonia tonale e funzionale, ma si basava piuttosto su accordi statici (pedal), uno o due al massimo, e associava a ogni accordo una differente scala modale, ciascuna con un peculiare colore. Piuttosto che utilizzare intricate serie di accordi, gli aderenti a tale estetica musicale preferirono quindi basare i loro brani su una o due sole scale musicali, creando così un sound più fresco e orecchiabile.

Negli anni Cinquanta il dilagare del rock’n’roll, la “musica dei giovani”, fece sì che il pubblico medio si allontanasse velocemente dal jazz; nel corso del decennio lo sviluppo della tecnologia e dell’amplificazione portò inoltre allo scioglimento della maggior parte delle big band esistenti. Le orchestre che seppero sopravvivere a questa crisi si contano sulla punta delle dita: fra queste vi fu quella di Duke Ellington, che con il tempo era riuscita a guadagnare un pubblico affezionato e non solo interessato alla musica da ballo.

 

Gli anni Sessanta e la liberazione del free jazz

Affascinata dall’estetica cool, nella seconda metà degli anni Cinquanta la McRae si era esibita con alcuni dei suoi rappresentanti, come Gerry Mulligan e Dave Brubeck. Ma negli anni Sessanta la scena jazzistica mutò nuovamente e radicalmente: nell’epoca della lotta degli afroamericani per i diritti civili non poteva che svilupparsi una musica altrettanto frenetica e rabbiosa. Il free jazz, sorto all’inizio del decennio, è forse il sottogenere jazzistico più intrinsecamente connotato dal punto di vista politico: è infatti impossibile comprendere il movimento free se non lo si mette in relazione con il suo intento di denuncia sociale. Il free era espressione di una generazione di giovani musicisti neri appartenenti a una cultura underground, che esigeva di essere presa sul serio nel mondo del jazz e dell’arte in generale: «è finita per i figli dei bianchi» dichiarò rabbiosamente in quegli anni Archie Shepp, sassofonista e fiero esponente del free jazz. «Non balleranno mai più con la musica del pagliaccio nero. È finita con i battelli sul Mississippi, con le ballrooms di Chicago e di Manhattan, con lo sfruttamento, con alcool, con la fame e la morte…È durato cinquant’anni il viaggio del nero verso il Nord… I figli del battelliere e dell’emigrante hanno valicato i confini folcloristici del jazz, la musica del nero americano è entrata nel mondo della cultura nera e americana».

Dal punto di vista puramente musicale, la libertà o l’atonalità nel jazz non erano elementi di novità: in retrospettiva, è possibile individuare fra i precursori del free jazz musicisti come Lennie Tristano, John Coltrane, Eric Dolphy, Charles Mingus, Jimmy Giuffre e Miles Davis. Ma furono musicisti largamente sconosciuti (come il sassofonista Ornette Coleman e il pianista Cecil Taylor) a mettere in atto una vera e propria rivoluzione musicale. I fautori del nuovo stile (talvolta definito New Thing, come era successo anche per il bebop) erano giovani e arrabbiati – e a ragione: non solo erano discriminati in quanto afroamericani, ma erano anche esclusi dalla corrente del jazz mainstream in quanto outsider musicali. L’uscita di Something Else! The Music of Ornette Coleman (1958) sconcertò il mondo del jazz: ma se fino a quel momento Coleman aveva conservato nelle sue esibizioni elementi e strutture della tradizione (esposizioni melodiche come apertura e chiusura di assolo di fiati sostenuti da una sezione ritmica, lunghezza dei brani limitata a pochi minuti, utilizzo del tempo 4/4) con l’uscita dell’album Free Jazz (1960), il suo progetto più audace, egli spezzò anche tutte queste rassicuranti consuetudini. Suonata da un doppio quartetto, la musica di Coleman esplorava i limiti estremi della tonalità e della struttura: stridente ed esplosiva, incessante e impetuosa, era ancora più densa e incontenibile rispetto ai lavori precedenti.


Molti critici liquidarono quella musica ribollente e poderosa come cacofonica e dissonante, come «strepiti e furori del tutto privi di significato», oltre che suonati da musicisti dilettanti. Il free jazz era indubbiamente sfrontato e ardito, ma nella maggior parte dei casi esso manteneva ancora legami con la tradizione: non solo molti dei suoi esponenti erano intellettuali le cui conoscenze e influenze artistiche trascendevano il solo campo musicale; ma alcuni di essi erano anche ispirati da una profonda ricerca di carattere spirituale e religioso. Inoltre, il senso di liberazione e l’assenza di protagonisti insiti nel free jazz portarono anche alla nascita di associazioni di musicisti animati da un sentimento comunitario e non competitivo: fra queste si ricorda l’AACM (Association for the Advancement of Creative Music), in seno alla quale si sviluppò alla fine degli anni Sessanta il tutt’ora attivo Art Ensemble of Chicago.

Nel corso degli anni Sessanta, sempre più musicisti (da Sun Ra a Albert Ayler, da Archie Shepp a Eric Dolphy e persino a maestri del jazz navigati come John Coltrane e Miles Davis) avrebbero sempre di più aderito a un jazz totalmente libero e carico di energia, e il loro lavoro si sarebbe sempre più orientato verso le esplosive, disinibite e talvolta sinistre performance tipiche del free jazz. Ma d’altronde, forse ha ragione l’ormai anziano Sonny Rollins, il “Saxophone Colossus” del mondo jazzistico per eccellenza, che in un’intervista del 2017 ha avuto a dire: «il jazz è in ogni caso musica politica».

 

Panoramica sul contesto musicale degli anni Settanta e Ottanta: fra fusion ed elettronica, fino alla riscoperta del jazz mainstream

Il jazz è sempre stato una musica di fusione: «niente che venga da New Orleans è mai puro»dice un vecchio detto. Negli anni la via maestra del jazz si era incrociata con un’enorme quantità di strade e viuzze, di generi e sottogeneri musicali, neroamericani e non: dal lirismo sanguigno ed erotico del blues al sincopato dinamismo ritmico del ragtime, dai testi celebrativi del gospel ai numeri della commedia musicale tout court, dalle sofferte torch songs alle elaborate composizioni originali dei jazzmen, dalla musica classica europea al klezmer di tradizione ebraica. Ma mai prima degli anni Settanta il jazz era stato così ricco di contaminazioni musicali: nel corso del decennio alcuni dei suoi più importanti esponenti tentarono invero ardite fusioni con una grande varietà di stili, i quali spesso avevano ben poco in comune con il jazz.

Nata a cavallo fra gli anni Sessanta e Settanta (complici l’evoluzione della tecnologia musicale e il perfezionamento della strumentazione elettrica), la cosidetta fusion (o jazz-rock), accostò per la prima volta a stilemi della tradizione jazz l’utilizzo di una strumentazione rock: va da sé che sintetizzatori, tastiere e strumenti elettrici rivestirono nella fusion un ruolo predominante.Ma la contaminazione avvenne anche a livello puramente stilistico: in quel periodo persino il più antico e caratteristico retaggio ritmico del jazz (il tradizionale swing feel), fu in genere sostituito da vigorosi ritmi funky o rock, oppure da elementi ritmici legati alla musica etnica o alla world music.

Sebbene ci fossero stati dei precedenti musicali, a inaugurare la stagione della fusion nel jazz fu soprattutto il doppio album Bitches Brew (1970) di Miles Davis: l’uso di strumenti elettrici al fine di creare uno “wall of sound”, l’eliminazione dell’arrangiamento e della ben rodata forma canzone in favore di lunghe e tumultuose improvvisazioni collettive, l’assenza di melodie orecchiabili e memorizzabili e la massiccia post-elaborazione dei nastri in studio furono fra le principali caratteristiche dell’album. Con Bitches Brew Davis conquistò un pubblico molto più ampio di quanto non avesse avuto fino a quel momento, motivo per cui alcuni critici lo accusarono di essersi venduto. In realtà Davis non aveva cercato di imitare le tendenze del rock contemporaneo: la sua musica – nella quale senso dello spazio e dinamiche rivestivano un’importanza fondamentale (non di rado ai rarefatti silenzi o ai flebili sussurri della band seguivano stridenti clusters suonati a tutto volume) – era scevra da convenzioni stilistiche e commerciali.

La musica incisa in Bitchew Brew è astratta, oscura, grezza, misteriosa, ribollente, impura; a ben vedere assomiglia molto più a un free jazz sostenuto da un forte beat che non al jazz mainstream o al rock convenzionale. Sebbene inizialmente avesse deriso Ornette Coleman (uno dei padri del free jazz), Davis lo emulò utilizzando esattamente le sue tecniche, ovvero convocando in studio musicisti di estrazioni diverse (fra questi vi erano Dave Holland, John McLaughlin, Joe Zawinul, Chick Corea, Bennie Maupin, Jack DeJohnette e Wayne Shorter) e lasciandoli suonare in maniera libera ed estemporanea. All’indomani della pubblicazione del disco, l’eminente Leonard Feather scrisse che da quel momento in poi il jazz sarebbe stata tutta «un’altra cosa».

E in effetti così fu (non verrà stabilito in questa sede se ciò fu un bene o un male): da quel momento in poi i confini fra musica jazz e pop si fecero più labili, e le intime esibizioni in jazz club furono presto sostituite da plateali show in cui gli uomini del jazz si alternavano sul palco a rock star spesso reduci da oceaniche adunate, come quella del Festival di Woodstock.

Nonostante Bitches Brew avesse cambiato la storia del jazz spalancando le porte alla fusion, come spesso successe nel corso della carriera di Miles Davis furono altri suoi ex collaboratori (ormai emancipatisi dal ruolo di spalla e divenuti leader a loro volta) ad avere più successo di lui. Nel corso degli anni Settanta il movimento fusion, eredità di Davis, si affermò come lo stile di jazz più in voga grazie a band dirette da suoi ex sidemen: i Return To Forever di Chick Corea, la Mahavishnu Orchestra di John McLaughlin, gli Weather Reaport diretti da Joe Zawinul e Wayne Shorter, gli Head Hunters di Herbie Hancock.

Alla fine degli anni Settanta il jazz era ormai qualcosa di più di un semplice repertorio o genere musicale; era una prospettiva, un modo di vedere e approcciare la musica. In quel periodo le correnti free jazz e fusion videro la sparizione di molti dei suoi protagonisti e una forte riduzione del pubblico degli appassionati. Si assistette così alla riscoperta del cosiddetto mainstream jazz, un jazz acustico che si rifaceva in particolare agli stilemi dello swing e del bebop.

In realtà lo stile tradizionale non era mai scomparso: tuttavia, in quel periodo riceveva raramente l’attenzione che avrebbe meritato all’interno dell’industria musicale.

Norman Granz, impresario musicale attivo dagli anni del dopoguerra, nel 1973 fondò l’etichetta discografica Pablo, alla quale aderirono molti musicisti di mezza età che avevano fatto la storia del jazz tradizionale: fra questi vi erano Sarah Vaughan, Ella Fitzgerald, Duke Ellington, Oscar Peterson, Count Basie, Dizzy Gillespie, Ray Brown e Milt Jackson. Il fatto che jazz master di quel calibro fossero liberi da contratti discografici è un segnale evidente di quanto poco l’industria musicale si interessasse al jazz dopo l’avvento del rock e della fusion. Anche altre etichette di jazz tradizionale prosperarono in quel periodo: fra queste si citano la Steeplechase (nata a Copenaghen nel 1972) e la Concord (nata l’anno successivo in California), per la quale anche la McRae registrò negli anni Ottanta. Tali iniziative precorsero i tempi, poiché il sound tradizionale tornò di moda di lì a poco, permettendo a molti veterani del jazz di dare nuovo slancio alle loro carriere: «Jazz Comes Back» [«Il jazz è tornato»] annunciòla copertina di Newsweek nel 1977, dedicando un articolo ai più importanti rappresentanti del genere.

Fra gli anni Settanta e Ottanta il canto jazz fu un terreno particolarmente rigoglioso: secondo quanto sostenuto da Ted Gioia nel suo Storia del Jazz, in quel periodo il jazz vocale (solido baluardo contrapposto al dilagare del rock e della fusion) era probabilmente la parte della scena jazzistica più affezionata alla tradizione. Cantanti affermate come la McRae e Betty Carter stavano allora dimostrando di saper portare alta l’eredità di Billie Holiday persino dopo decenni: in particolare «nessuna cantante dai tempi della Holiday era stata brava come la McRae a cantare in ritardo sul beat o a passare da interpretazioni delicate come conversazioni intime a taglienti riconfigurazioni di melodia e testo» affermò Gioia. Quello della McRae era uno stile peculiare e distintivo, ma che si ispirava e rispettava la tradizione del canto jazz. Oltre alle eminenti vecchie guardie, alle già affermate stimate reginette del canto jazz, molti giovani vocalist iniziarono allora la loro carriera cavalcando quest’atmosfera di revival del jazz tradizionale: alcuni di loro, dotati di particolare talento – come Dianne Reeves, Bobby McFerrin e Cassandra Wilson – sono tutt’ora in auge e stanno ancora continuando a rinverdire la tradizione.

A dimostrazione della nostalgia che molti cantanti provavano per gli ormai lontani anni d’oro del jazz, gli anni Ottanta videro inoltre l’aumento della popolarità del cosiddetto vocalese, grazie all’apporto di artisti come Joni Mitchell e i Manhattan Transfer. Sviluppatosi originariamente negli anni Cinquanta grazie a cantanti e parolieri come Eddie Jefferson e Jon Hendricks, il vocalese è uno stile vocale jazzistico nel quale vengono aggiunti testi a melodie e assolo jazz preesistenti; è prassi comune che tali testi rendano omaggio ai musicisti di jazz più importanti, da Miles Davis, a Charlie Parker, a Charles Mingus, a Coleman Hawkins.

Negli anni Ottanta nuovi artisti emergenti iniziarono a farsi strada nel panorama jazzistico: fra questi si distinse in particolare Wynton Marsalis, giovane trombettista di New Orleans capofila dei Young Lions, una corrente di giovani musicisti neotradizionalisti che promosse con forza la riscoperta delle radici del jazz mainstream in opposizione alla fusion. Fra questi, più di chiunque altro Marsalis si auto-promosse come ambasciatore globale del jazz.


Paese che vai, jazz che trovi: dagli anni Ottanta ai giorni nostri

Gli anni tra il 1980 e l’inizio del XXI secolo videro l’emergere di sempre più numerosi giovani e promettenti musicisti jazz non solo negli Stati Uniti, ma in tutto il mondo: dal quel momento in poi, il jazz ha gradualmente assunto diverse identità musicali, certamente rispettose della tradizione, ma non più necessariamente subordinate al modello statunitense.

Oggigiorno esiste in tutto il mondo una ben strutturata didattica del jazz ed è possibile apprendere tale idioma persino nei conservatori, un tempo inviolabile tempio della musica classica. Ma in certi ambienti il jazz è ancora considerato musica di serie B, e lo dimostra il fatto che a oggi in Italia i jazzisti in possesso della laurea magistrale siano ancora esclusi da alcune classi di concorso per l’insegnamento nelle scuole pubbliche (possibilità che ovviamente non è preclusa ai musicisti classici in possesso del medesimo titolo di studio). Se molti protagonisti del jazz contemporaneo protestano dichiarando a gran voce che «è tempo che si parli del jazz come della musica classica del Novecento» (parole queste, del pianista Keith Jarrett), molti puristi ritengono che il jazz – essendo principalmente musica improvvisata, non scritta – non possa avere la stessa dignità della classica. «Voi avete Stravinsky, e per voi è facile parlarne, scriverne, perché di lui si sa tutto, e tutti lo rispettano», affermò una volta – e senza nascondere un velo di stizza nei confronti dei cultori della musica occidentale – il sassofonista afroamericano Archie Shepp, che fu uno dei più infuocati capiscuola del free jazz.

Nel corso di quell’intervista, raccolta da Arrigo Polillo, Shepp lamentò la mancanza di letteratura jazzistica e affermò che trovandosi a preparare le lezioni per l’Università di Amherst, nel Massachusetts, dove insegnava da alcuni anni teoria musicale e storia della musica afroamericana («no, non mi piace la parola “jazz”, l’hanno inventata i bianchi, implica segregazione» soleva dire il jazzista), faticava a trovare la documentazione necessaria. «Tutti i libri parlano di Stravinsky, di Beethoven, di Mozart, ma ignorano la nostra musica…» affermò con amarezza il sassofonista in quei lontani anni Settanta, ancora segnati dai drammatici avvenimenti che scandirono l’avanzata della black revolution nel tumultuoso decennio precedente. Anche se oggi la situazione è molto cambiata, è indubbio che c’è ancora molta strada da fare affinchè il jazz possa essere conosciuto, studiato e celebrato come si fa con la musica classica. E chissà se l’ultraottantenne Archie Shepp (che a oggi continua a suonare in giro per il mondo quasi incurante della sua veneranda età) sarebbe felice di questo mio modesto contributo letterario fatto al mondo del jazz.

«Personalità potente quanto camaleontica, in un secolo il jazz è stato tutto e il contrario di tutto: musica tribale che entrava in città, cordiale accompagnamento da ballo o da ascolto, palco per virtuosi, ribellione pura, gesto politico o snob, seducendo di volta in volta gente in cerca del nuovo oppure vecchi nostalgici»: scrisse a ragione nel 2017 il giornalista Alberto Riva di Repubblica, in un articolo volto a celebrare il centenario della nascita del jazz, ovvero la pubblicazione del primo disco della Original Dixieland Jazz Band. Facendo ben comprendere l’importanza che il jazz ha assunto per il XX secolo e l’influenza che esso avrebbe esercitato sulla nascita di moderni generi musicali egli concluse così il suo articolo: «Di sicuro [il jazz] ha interrogato la musica, e anche la società: per primo, ha fornito al Racconto Americano uno dei suoi ingredienti imprescindibili, la sanguinosa, gloriosa, lunga e tuttora sofferta epopea dell’integrazione. Dopo sarebbero arrivati il rhythm and blues, il rock, il rap, il funky, l’hip-hop... Ma solo dopo, molto dopo».

D’altronde, molto prima di influenzare generi tutt’ora sulla cresta dell’onda come il rock o l’hip hop, il nascente jazz (che allora non poteva ancora definirsi tale) attrasse – a partire dai primi del Novecento in poi – persino blasonati compositori di musica classica come Debussy, Ravel, Stravinsky e Satie, i quali si ispirarono per alcune loro composizioni a materiali della musica afroamericana pre-jazz, fra cui il ragtime.

Non ci è dato sapere quali saranno le future sorti del jazz, se tale musica negli anni che verranno scivolerà nel dimenticatoio oppure risorgerà con sempre più vigore e slancio creativo. Ma forse non è questo l’importante. Poiché, come scrisse il giornalista Giuseppe Videtti in un altro incantevole articolo di Repubblica:

«Se anche la storia del jazz fosse finita qui, se nel nuovo millennio se ne dileguassero le tracce, se mai più nessuno soffierà nella tromba come Louis Armstrong, Dizzy Gillespie, Clifford Brown e Miles Davis, se i sassofoni gloriosi di Charlie Parker, Lester Young, Coleman Hawkins, John Coltrane, Ornette Coleman e Archie Shepp dovessero rimanere sigillati nelle custodie, i pianoforti di Ellington, Thelonious Monk, Bill Evans e Keith Jarrett dimenticati in soffitta e i principi dello swing – Benny Goodman, Tommy Dorsey, Glenn Miller, Count Basie, Artie Shaw e Woody Herman – confinati in un nostalgico dimenticatoio, ai posteri resterebbe un secolo di musica da scoprire e riscoprire, una miriade di voci e di suoni, di nomi e di stili, un tesoro immenso che ora è parte indelebile della cultura del Novecento».

Ha ragione il giornalista a vedere il lato positivo: se anche l’aristocratica corte del jazz (fatta di geni ribelli, di improvvisatori folli, di impareggiabili virtuosi, di lady, conti, duchi, regine e imperatrici), dopo la scomparsa dei suoi storici componenti non vedesse più emergere dei degni successori, la meraviglia di tale musica (che ha insegnato al Novecento l’importanza della libertà e del dialogo che trascende le differenze) non potrà mai essere spazzata via.

Ma fortunatamente, all’alba del secondo decennio degli anni Duemila qualche continuatore dello stile creato da Buddy Bolden si comincia a intravedere; non a caso Videtti prosegue il suo articolo (dal titolo Liberi, folli, sognatori… Non può finire qua) menzionando Kamasi Washington, musicista californiano nato nel 1981 e ormai consacrato da pubblico e critica come uno dei migliori artisti jazz emergenti.

Scrive giustamente il giornalista di Repubblica: «Dunque se anche il giovane sassofonista Kamasi Washington non avrà l’energia di riportare il jazz agli antichi splendori, ci resta pur sempre un secolo di meraviglia da esplorare». Per il momento – essendo forse ancora presto per trasformare ciò che è ancora cronaca quotidiana in storia – non ci rimane altro da fare che ringraziare per il meraviglioso dono che il Novecento ci ha fatto, sperando in un nuovo «secolo di meraviglia».[2]

[1] Nel jazz dei primordi il termine hot era in voga e veniva utilizzato per esprimere apprezzamento nei confronti di un jazz particolarmente coinvolgente ed espressivo. Il termine veniva utilizzato in contrapposizione con lo sweet jazz o straight jazz, uno stile più lirico, raffinato ed edulcorato, spesso pensato appositamente per un pubblico bianco. A differenza del jazz hot, tale stile era maggiormente vicino alle istanze della musica pop, di conseguenza in esso le componenti del ritmo sincopato e dell’improvvisazione erano più limitate. [2] La fonte alla quale si è fatto maggiormente riferimento per la scrittura di questa sezione è il libro Storia del Jazz di Ted Gioia, con edizione italiana e traduzione dall’inglese a cura di Francesco Martinelli (EDT, 2013).



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